lunedì 31 dicembre 2012

Pa pa ra pa paaa



Squillino le trombe, percuotete i tamburi, schiantate i cembali: l’anno è finito! Fate pure le liste per il nuovo anno, gli impegni, le promesse, però mettetene almeno una che possiate mancare già il primo giorno del nuovo anno. Ora si dovrebbero fare i bilanci, gli esami di coscienza, lucidare gli specchi e tagliarsi la barba. Sembra un pò San Valentino con la sua banalità, “perché dovrei fare un’analisi oggi della mia vita quando la faccio tutti i giorni”, suona un po’ come “perché dovrei fare l’innamorato oggi quando (mi) amo tutto l’anno”. Però alla faccia delle liste quest’anno ho concluso quasi tutti i miei propositi. Ammetto che erano facili, che ho quasi solo dovuto lasciare che si realizzassero autonomamente, però del mio ce l’ho messo. Quelli mancati, giusto un paio, non sono avvenuti “a mia insaputa” e contro la mia “volontà”. Quindi mi promuovo per un altro anno di perfetta apparenza. Al nuovo giro rimetto il lista gli obiettivi mancati e ne aggiungo un paio, va bene facciamo tre... quattro. Però noto che quelli mancati sono scritti con una grafia strana, sempre mia, ma corsiva. E’ il modo in cui scrivevo da bambino. Oh cielo, ma da quanti anni sono in lista?

Foto: dettaglio di un’opera di Alberto Garutti  "Il cane qui ritratto appartiene ad una delle famiglie di Triviero. Quest'opera è dedicata a loro e alle persone che sedendosi qui ne parleranno" - Pac Milano 2012

domenica 23 dicembre 2012

Tana libera tutti, prima o poi


Non pensare, non illuderti, che basti un velo a nasconderti. Nemmeno un tessuto più spesso della materia di cui sono fatte le vele, nemmeno le distanze dei mari bastano a nasconderti. La tua presenza mi percuote lo stomaco come il mi più basso che io abbia mai sentito, la rilevo come una radiazione di fondo, un om costante. Hai costruito un edificio di carbonio cementato da parole esoteriche credendo inespugnabile il tuo nascondiglio, ma il grido che non riesci a trattenere mi richiama più del tuo odore o delle tue tracce. Puoi sfuggire agli anni che questo ciclo di vita ti consente, ma ricadrai nel prossimo, e nel prossimo ancora, perché non ci sarà pace finché ci sarà distanza. Non illuderti della tua stagionalità, saprò aspettare, come attendo oggi paziente il cioccolato che si fonde.

foto: Alchechengi, 23 dicembre 2012

domenica 9 dicembre 2012

La placenta di Linus


La passerella solida con cui è iniziato l’attraversamento del baratro sembra più stretta, mentre i venti polverosi mi confondono la vista. Gli occhi secchi vorrebbero chiudersi per riposare, ma temono il buio. Una massa nera, seduta come una vecchia foca ( questa è veramente buia ) solo i riflessi da piume di corvo la rendono pericolosamente attraente. Un mostro con gli orecchini di perla. Mi chiedo quale dovrebbe essere il ritmo dei miei passi, quale cadenza dovrei tenere? Provo a posare un passo per ogni battito del cuore, che ora solo ora, mi accorgo quanto sia lento. Intanto gli occhi bramano tutta la distanza, ma sento solo il vuoto, ciò che ho è mancanza. I pugni esistono per non avere le mani vuote, ma le unghie feriscono senza fare complimenti. La strada ha curvato, me ne sono accorto solo ora, mentre penso che anche il cerchio è un poligono. Non i cerchi concentrici dei poligoni, che fingono di essere qualcosa di diverso dal petto di un uomo. Allora ci sarannio spari, ma anni di musica di nicchia mi ha reso immune alla sorpresa, ma non alla noia. Un bambino affamato cerca di buttare tutto il mare in una buca, un adulto lo guarda e lo deride. Il bambino a sua volta deride l’adulto, perchè sa che entrambi non potranno fare a meno di cercare di svuotare il mare. L’adulto vede nella buca l’arroganza, il bambino la fame. Una fame infinita da Arlecchino, una sete da alcolizzati, una serenità da dementi. In tasca ho un foglietto: una vecchia lista della spesa, troppo corta per essere vera. Un altro promemoria dello sbaglio, come la ricevuta di una scommessa perdente nella tasca di un fallito. Potrei farci una barchetta, ma non mi fido senza una tormentina bianca e candida. Mi ci appallottolo dentro, per favore, calciatemi dentro la primavera.

foto: On Space Time Foam 3. Installazione di T. Saraceno, HangarBicocca, Milano

giovedì 22 novembre 2012

Della crisi


Ci sto pensando da un po' e credo che dovrò affrontare la questione in più momenti. Tanto per cominciare la definizione del vocabolario non mi piace nemmeno quando la intende come "momento decisivo, scelta". Preferisco pensarla come ad un sinomimo di "mancanza", di risorse, di energia e di scelte. Anzi proprio la mancanza di scelte mi sembra la sua manifestazione più lampante. Per me la crisi è quando manca qualche cosa che dovrebbe esserci e prima c'era, sulla cui presenza confidavo. Quindi mancanza di libertà, di autonomia, allora maggior controllo, polizia e insicurezza. Oppure stanchezza, apatia, quindi resa. La crisi è una motocicletta con le rotelle, è un contratto matrimoniale, è il cibo precotto, è lo sport in televisione, è guardare l'amore degli altri, è lavare una macchina senza la benzina nel serbatoio. Quando le risorse sono poche c'è anche poco da scelgliere, occorre occulatezza, parsimonia oppure, al contrario, grande dispendio come stimolo. Sarebbe bello se bastasse immettere nelle crisi un valore immateriale per uscirne. Allora la nostra salvezza sarebbero i creativi e gli entusiasti. Un detto orientale ricorda che non si può allontare il buio ma si può accendere una candela. In pratica invita a reagire, partendo dal piccolo. Ma la crisi nella mia mente rimane come uno stretto vicolo con alti muri ai lati in cui si avanza con difficoltà, ma chi ha sperante può cercare intanto  spiragli e nuove vie. Se fosse così facile non ci sarebbe problema né per i miei piccoli buii né per quelli della società. O forse entrambi non abbiamo un obiettivo a cui rivolgere il desiderio. Con quale alchimia potremo trasformare la rabbia in sogno?


foto: crisis - 22 novembre 2012

domenica 18 novembre 2012

Luoghi


Nella geografia della memoria i ricordi hanno bisogno di luoghi, di posti, di collocazioni nello spazio altrimenti perdono peso e vagano nella fantasia e nell’amnesia. Nella “Bestia della giungla” il protagonista si ricorda di un pomeriggio a Roma, nei Fori Imperiali, una tenda bianca e un temporale. La sua amica, che per anni ha ripensato a quei giorni, lo corregge ricordandogli che si trattava di Napoli e la tenda era la copertura di una barca. Il luogo per eccellenza è la casa, in questo giorno di piccolo raffreddore, l’unica cosa che desiderassi era tornare a casa mia, benché sia tale solo da pochi mesi. E’ come se un pezzo di me fosse legato a questo luogo e lo abbia sacrificato a “casa”. Il crescere assieme lega, oltre ai corpi e alle anime,  anche gli oggetti. Un luogo per eccellenza è il cimitero. Ho uno scarso culto dei morti, non sento il grande bisogno di visitare le tombe e i miei cari li porto nel ricordo. Preferisco visitare i posti in cui hanno vissuto, sperare di intrecciarne una scia, di qualche tipo, a qualunque branca della fisica o della teologia appartenga. Con la visita di San Bernardino alle Ossa l’idea del luogo finale è apparsa con poca creanza. I proprio resti vengono conservati da altri,e usati, magari esposti. Quelle centinaia di teschi vuoti erano persone, non ossa, erano volti, sorrisi, amori, idee, scelte. Erano tanti di me. Questa unicità che è la nostra vita, si è ripetuta nella sua statistica individualità migliaia di volte nella storia e gli atomi di cui siamo fatti sono gli stessi delle comete e dei dinosauri, o degli ingegneri di Ridley Scott. Ho comprato un altro libro sugli alberi, che per la maggior parte,  nascono, vivono e muoiono nello stesso luogo.



Foto: San Bernardino alle Ossa, Milano - 17 Novembre 2012

giovedì 1 novembre 2012

Con cucina


Il ristorante è pronto, i tavoli sono apparecchiati, il cameriere è sull’attenti vicino all’ingresso pronto ad aprire la porta, il cuoco è in cucina, ha già preparato le basi, le pentole scalpitano di vapore e si tiene occupato decorando piatti vuoti. Nessun cliente entra nel ristorante per tutto giorno. La polvere inizia ad appoggiarsi sulle posate e sulle tovaglie bianche, il cameriere legge e rilegge il giornale appoggiato alla casa. Il cuoco ha buttato nell’immondizia ciò che aveva già preparato. Passano i giorni e nessun cliente compare. Il cameriere e il cuoco iniziano a passare le giornate seduti al tavolo centrale con i gomiti appoggiati stancamente. La cucina è vuota e silenziosa. Le uniformi sono trascurate e i tavoli sanno di abbandono. Nessuno entra dalla porta con le tendine. Se qualcuno entrasse ora si spaventerebbe dalla trascuratezza del posto, il menù sarebbe vecchio, le pietanze banali e forse il servizio scontroso. Nessuno sa perché i clienti ignorino questo posto, forse la posizione, forse la zona, forse il nome sbagliato, o forse solo sfortuna. Nessuno lo sa, chi lo sa non lo dice e il ristorante precipita nelle ragnatele degli angoli dimenticati della città.

Foto: Amleto per cena.

venerdì 19 ottobre 2012

Apologia della minestra


Avrei voluto prendere il telefono e dire una cosa del tipo “ciao, nulla, è che mi sento triste come una minestra...” Molte persone associano la minestra a qualche cosa di triste, di invernale, di malaticcio. Io non trovo che sia un piatto triste ma mi adeguo, si sa che le metafore sono fatte per gli altri. Io la minestra la trovo simpatica: è leggera, saporita se la sai fare e colorata. Inoltre se cucinata lentamente ti riempie la casa del profumo di verdura e di attesa, il giorno dopo è meno piacevole però al momento mi ricorda qualche cosa di caldo. Sabato scorso non ero affatto triste, mi sono cucinato una minestra e ho guardato un film di Godard. Immagino che a qualcuno ciò possa apparire tragico, ma ero veramente sereno. Da qualche giorno lo sono meno, anzi non lo sono affatto: il freddo si sente. Ho un ragù congelato e penso che lo userò per vestire gli spaghetti di un bel rosso profumato, abbinato a quello nel bicchiere, sperando di trovare un pensiero rosso da seguire nella serata. Ma come dice Ferdinando Bruni quando interpreta Rothko “rosso? rosso come?”


foto: Minestra
 

sabato 6 ottobre 2012

Di muro e muri


Non posso immaginare, né voglio scoprire, come nascono le mie ossessioni, ma un volta esaudite mi piace gustarne la sensazione aromatica che lasciano. Quando vidi questo muro rimasi attratto da un qualche cosa di indefinito, forse il grigio, forse il fiammeggiante e freddo neon al centro, forse le migliaia di piccole imperfezioni del cemento. Subito mi sono detto che lo dovevo fotografare, che dovevo portarmi via quella sensazione. Il continuare a rimandare questa piccola cosa mi torturava come la più grave mancanza, come un senso di colpa corrosivo. Ogni mattina e ogni sera, per mesi, mi sono soffermato a guardarlo ma mai ho scattato una foto. Oggi finalmente l’ho fatto. Il risultato non è stato quello sperato, per limiti miei, di capacità e di attrezzatura. Così alla ricerca della soddisfazione ho scoperto un mio limite e guarda caso è un muro. Io che ho sempre usato la metafora del muro per indicare un punto che non potevo raggiungere, così come il suo abbattimento per parlare di un obiettivo raggiunto, oggi mi trovo davanti ad un muro-limite vero. I momenti peggiori li ho sempre immaginati come deserti di marmo bianco e liscio e piccoli muri grigi sparse all’orizzonte che nascondevano qualche cosa da raggiungere. La foto di per se non mi dispiace, ma non è quella che immaginavo, non è quella che avrei stampato e appeso ad un altro muro. Non ha il dettaglio, il contrasto che il muro vero possiede. Magari un giorno ci riproverò quando avrò nuove idee, magari nuovi strumenti, per il momento ho solo aperto l’assalto ad  un altro muro che è rimasto in piedi, ma trema, perché sa di essere sotto assedio.
 

foto: Grey wall - 6 ottobre 2012

lunedì 24 settembre 2012

Un'ora di luce


Tanto per saltare da un’universo ad un altro senza scomodare la fisica mi sono dedicato a dieci giorni di cinema, l’occasione è stata seguire, fotografandolo, il Milano Film Festival. Diciamo che ho giocato a fare il reporter dilettante ma caparbio. Adesso che ci penso molte cose le faccio così, ma questa è materia per altre reflessioni che il cielo autunnale mi invita a rimandare.  Così ho visto tanti film, alcuni molto belli, alcuni entusiasmanti, diversi già dimenticati, un paio talmente brutti che non riuscirò mai a scordarli. In realtà mi è piaciuto sentire raccontare il mondo del cinema dalle voci dei registi, e ad essere sincero, mi è piaciuto sentire confermare da loro la mia visione del cinema: un po’ romantico, un po’ nostalgico. Ho sentito come una responsabilità l’invito a “fare cinema”, come se fosse una cosa da niente. Però è stato bello essere immersi in una folla eterogenea, che più diversa di così non si può, tutta protesa a respirare la luce che rimbalza dallo schermo. Un’apnea collettiva nelle immagini e nei suoni che toglie al tempo il suo protagonismo. Tutto intorno c’erano un mucchio di cose belle tra cui  la settimana della moda, il Festival MiTo, che hanno diviso Milano in settori che, sciocchezze a parte, fa dispiacere perdersi. C’era cinema ovunque. Al MiTo ho visto un meraviglioso Chaplin orchestrato dal vivo e l’associazione Scheggia ha regalo un film coreano da urlo. Ora devo mettere in ordine le sensazioni raccolte, sfoltirne le ridondanze e vedere se qualche cosa germoglia. Non che io voglia coprire la calvizia con le delle foglie: Elio insegna che potrebbe essere molto pericoloso.

Foto: Milano Film Festival 2012 - Parco Sempione

sabato 25 agosto 2012

La quarta parete oltre la buca

Di tutto ciò che posso pensare completo, profondo e umano, poco regge il confronto con il teatro. Non c’è finzione che tenga, nemmeno se la scenografia è complessa e tecnologica, non c’è virtualizzazione o effetto speciale che regga il passo con l’attore che recita. Oltre la pittura, la poesia, l’arte in generale, di tutto quello che si può creare il teatro è forse la forma di narrazione più completa. Certo se voglio imprigionare un paesaggio scatto una foto, e anche qui ci sarebbe molto da dire, però se devo raccontare un storia io immagino il teatro. Tutto parte dall’avere una storia da raccontare, vera o inventata, scritta o improvvisata, da fare propria. L’attore la mangia, la mastica, la inghiotte e la fa diventare fibra del proprio corpo. Poi si cerca il posto adatto, che sia una sala o un prato, un palco o un parcheggio, perché lo spazio possa contribuire nella rappresentazione. Si mettono i pezzi di scenografia che mancano, le luci e i contributi sonori. Poi c’è il pubblico, perché la storia esiste solo se c’è qualcuno a cui raccontarla. A questo punto l’attore, o la compagnia di attori, si prende tutto lo spazio e il tempo per raccontare la storia. Non solo la loro voce, ma il corpo, il movimento, l’interazione diventano parte della narrazione e ogni gesto rafforza e sostiene le parole, se parole ce ne sono.  Forse anche per questo mi fanno paura gli attori, un po’ perché si trasformano, un po’ perché assorbono il mondo che gli sta attorno e interagiscono usando se stessi completamente. Il loro strumento di lavoro sono loro stessi, generosamente impiegano il loro corpo e si plasmano per diventare racconto.


foto: Dallo spettacolo “Le meccaniche dell’anima” - Compagnia Opera Liquida - Carroponte 24 agosto 2012

martedì 31 luglio 2012

Carta d'identità a volumi


Traslocare una libreria, anzi i libri, da una casa ad un’altra non è come spostare un armadio o un letto. Non puoi riempire le scatole, trasportarle, per svuotarle sui nuovi scaffali. La vecchia libreria era molto grande e aveva i ripiani con i libri in doppia fila, tripla se contiamo quelli rovesciati sopra; anche quella nuova potrebbe, ma non voglio più che mi sfuggano alla vista libri che ho amato. Quindi ho fatto passare uno per uno i volumi e credo di aver speso almeno un pensiero per ognuno. Di alcuni mi si illuminano i brani, di altri le emozioni che mi hanno provocato, oppure il ricordo di chi me lo ha regalato o consigliato. Molti sono rimasti nel vecchio scaffale, porto con me solo quelli che non riesco a lasciare, quelli che vorrei riprendere in mano e quelli di cui voglio essere sicuro della presenza. Ora vorrei organizzarli per argomenti o per salti logici tutti miei, però lo spazio è un vincolo rigido e di legno. Sarebbe bello che uno sconosciuto entrando in casa  e osservando le coste dei volumi decida con lucida consapevolezza se darsela a gambe o sedersi sul divano e iniziare una lunga chiaccherata. Il mio esibizionismo indiretto passa anche da qui, dal mio spazio, come se un pezzo del mio codice genetico fosse stampato e impilato in uno scaffale. Una specie di fotografia a caratteri tipografici degli ultimi miei dieci anni e un pezzo di quelli prima.
Ho lasciato molto spazio ai libri che verranno, sarebbe un errore tattico averla già riempita, però magari una più piccola in altra stanza potrebbe fare da rifugio secondario. La nuova libreria resterà vuota a metà per un po’, in modo da assomigliarmi del tutto.

foto: New bookshelf, Luglio 2012

lunedì 23 luglio 2012

E ti vengo a leggere nei segni


Fa freddo qui fuori e quando c'è il sole si brucia. Si sentono urla strazianti, grida minacciose. Se il terreno non fosse così duro scaverei con le unghie per nascondermi. Vedo aggirarsi ombre luride, dalle braccia lunghe, con gli artigli. Non conosco le loro intenzioni, non posso leggere il loro cuore perché sono esseri senza occhi. Nel silenzio sento l'eco del mio cuore che impazzisce, lo stomaco si contrae e gli occhi lacrimano per la polvere delle macerie. Mi sono consumato le nocche bussando, non ho più voce, solo disperata pazienza. Passo i polpastrelli sul bordo della porta, cerco di interpretare le scalfiture come messaggi e la posizione dello zerbino come un invito, o un rifiuto. Le finestre sono murate e non sento rumori provenire dall’interno. A volte sento dei sospiri, ma temo sia la mia immaginazione. Non ho scelto la strada che mi ha portato fino a qui, è stato il caso, che io benedico. Anche se fossi nella più accogliente delle oasi, nel più caldo tepore di una casa, verrei qui a bussare. Mi senti?

foto: NO - Giugno 2012

domenica 15 luglio 2012

Domenica


Qualche cosa è cambiato da qualche parte, nel mio cervello, nei miei occhi, nei giornali che leggo. Il sabato non sempre compro il giornale, ma quando lo faccio è solo perché ho del tempo da dedicarci e se non trovo nulla che richiami l’attenzione lo butto via con rabbia. La domenica ne predo sempre e comunque due perché hanno un ricco inserto culturale, uno più bello, l’altro differente e più lontano da me. Non più di un anno fa leggevo gli inserti con lentezza, ad ogni pagina trovavo argomenti in cui perdermi,  titoli di libri da avere assolutamente, posti e cose da scoprire. Poi è successo qualche cosa e anche questi inserti mi scivolano tra le mani senza lasciare nessuna traccia della fame che avevo. Uno di questi ha cambiato da poco direttore ma non so quanto questo c’entri. Io sono sensibile alle passioni improvvise, ma quando mi prendono non sfumano velocemente e per un po’ le porto con me.Magari le archivio in qualche cassetto frigo per l’uso al momento giusto. Non ammetto che quella sensazione fosse una mia moda personale.  Forse sono diventato meno curioso o forse so che ho meno tempo ed energia da dedicare a nuove cose e quindi, inconsciamente, le ignoro. Adesso voglio tornare com’ero prima e, sappilo, Chiaberge mi manchi.


foto: Avanzi, Luglio 2012
 

venerdì 29 giugno 2012

Myself


C’è un gran silenzio ovunque, solo di tanto in tanto qualche rumore di sedie spostate: sta per iniziare la partita. Aderisco molle alla presa del divano, con il braccio destro lungo lo schienale tengo il bicchiere tra i polpastrelli facendolo girare pigramente. L’altra mano è appoggiata sulle gambe con l’anulare che fa da segnalibro alla rivista. Ho abbassato tutta la luce della casa, un po’ ne filtra tra le fessure delle tapparelle, resta una lampadina alle mie spalle che mi ricorda che non ho ancora comprato un lampadario. Troppo buio per leggere, troppo caldo per muoversi. Inizia l’inno, lo ascolto in lontananza dall’audio dei vicini, tutti i vicini. Lo canticchio piano, lo trovo sempre molto coinvolgente. Iniziano le urla sconnesse, le bestemmie, i “no” e i “sì”, per lo meno non ansimano. Credo che avrebbe più senso, e forse sarebbe l’unica attività che possa muovermi ora da qui. Casa, divano, whisky, penombra, quando ho immaginato questo traguardo? Quanti anni sono passati dalla prima volta che l'ho? Oggi sento che l’ho raggiunto. Vuoto il bicchiere, mi alzo, accendo la radio e prendo la macchina fotografica: mi riconosco.

foto: It's my time now, 29 giugno 2012

venerdì 22 giugno 2012

Si chiama Estate


L’odore dell’estate è quella dei tigli, dell’aria calda della pianura che sa di prato e resta ferma sotto il naso. E’ il calore dolce del tramonto, quasi fosse una promessa per una notte accogliente e non insonne e sudata come invece sarà. Le voci dei bambini non sono soffocate dalle case, dai lampi del televisore acceso, ma squillano e ripetono le stesse frasi da migliaia di anni, così i richiami delle madri. Vorrei chiamare l’amico di tutta un’infanzia e urlargli, ridendo al telefono, “non è cambiato niente! non è cambiato niente”. Quell’eterno gioco a nascondino, le cretinate dette, oppure i segreti raccontati a bassa voce quando il cielo era già scuro e ci faceva sentire grandi ritardare l’ora del rientro. Oggi il mio amico starà facendo lo stesso pensiero guardando le sue due figlie giocare in giardino. Maledetta adolescenza che avveleni i giochi dell’infanzia per scimmiottare la tragedia degli adulti. Così da adulti giochiamo a fare i bambini ma senza l’impegno e l’illusione del tempo infinito e la volontà di voler occupare tutta un’estate.


foto: Summertime, 22 giugno 2012

domenica 10 giugno 2012

Gli ultimi saranno in ritardo


Sono spesso in mezzo a noi ma li percepiamo solo come un fastidio, nulla di più, senza ipotizzare che possano essere altrimenti, come le zanzare. Da quando sono apparsi sulla sulla terra sono  stati allontanati, cacciati, rinchiusi, schiavizzati, sterilizzati, massacrati eppure sono ancora nelle nostre città ma noi ne vediamo solo la mano tesa. Se strizzassimo un po’ gli occhi potremmo cercare di mettere a fuoco il polso, il braccio e infine la persona che c’è in fondo.  Mi sono fatto una domanda, ma com’è possibile che ci sia gente che viva così per scelta? Com’è possibile che si possa voler vivere da nomadi, nelle roulotte, nei campi? Chi può scegliere come vita il mendicare, piccoli furti o truffe? Non sapendo dove trovare la risposta il caso mi ha messo nelle mani un libro. Anzi il libro, una vera enciclopedia del mondo romanès e della loro cultura, perché guarda caso ne hanno una. Anzi, nonostante la persecuzione hanno conservato gelosamente la loro cultura, intatta, non arresa. I mendicanti che incontriamo sono la parte evidente di un popolo disperso nel mondo, per lo più integrato e sedentario. Ovviamente noi vediamo solo gli “zingari” che ci tendono insistentemente la mano, un gesto di resa per un popolo che non si è mi arreso ed è l’unico popolo che non ha mai dichiarato guerra a nessuno. Non basta un libro per allontanare la diffidenze, a me non è bastato, ma scardina la visione monocromatica del bianco e del nero, del giusto e dello sbagliato, della ragione e del torno, del raccontato e del vissuto. Santino Spinelli è una Virgilio molto bravo se in un giorno di ardore vorrete liberare un pezzo del vostro pensiero mai abbastanza libero.

Foto: In una piazza vicina, il giorno dell’arrivo del papa a Milano.

venerdì 8 giugno 2012

La chiave di un universo in promozione diretta

E’ comparso improvvisamente con una frase del tipo “ciao sono un cantautore e mi promuovo proponendo direttamente il mio cd”, e abbiamo scherzato e chiaccherato interrogandolo sul quanto fosse difficile fare musica per mestiere, oggi, qui. Il cd l’ho comprato, non certo per pietà o solidarietà, ma perchè ad ogni copia aveva incollato un piccolo oggetto preso da casa sua. All’inizio avevo addocchiato quello con una piccola ambulanza giocattolo, ma alla fine ne ha tirato fuori uno con una piccola chiave metallica. “Che chiave è?” aspettandomi un “bho”, invece lo sapeva ed era la chiave dalla cassa del negozio di ferramenta di suo padre. In quel momento avevo davanti un uomo, una storia, tante storie, un vorticare di universi passati e presenti. La chiave era quella della cassa della ferramenta e lui ci aveva lavorato il sabato, poi la chiave gli era rimasta, probabilmente persa in un barattolo o in scatola di cianfrusaglie, per ricomparire incollata alla copertina del suo disco. Non so se riesco a trasmettere il fatto che tutto ciò mi sembra straordinariamente bello, unico, quasi magico. Tengo in mano la chiave e mi sembra di sentire l’odore della ferramenta, la luce del sole che illumina in maniera differente i vari oggetti, le latte colorate, l’odore della polvere.  Ora che sto ascoltando la sua musica riconosco il suo modo di parlare nei suoi testi, in un modo più diretto e deciso di quella sera , adesso  immagino il suo ciuffo biondo oscillare al tempo degli accordi. E’ incredibile quanta vita si possa rubare in pochi minuti.

foto: Libero Tutti / Paolo Fan - giugno 2012

domenica 3 giugno 2012

In fondo anche questa è una preghiera

Secondo me è una contraddizione eccessiva che si parli di religioni contro religioni, di anti e di pro, proprio perché l’argomento è così universale che sembra un cielo. Io ci sono (ne sono quasi convinto), un dio o più forse, se però c’è tutto diventa semplice altrimenti tutto è un po’ demoralizzante, come  cercare parcheggio per andare a lavorare. Preso per buono questo punto di partenza ci si inizia a scannare sul resto: sui riti, i comportamenti individuali e sociali, i ruoli e i poteri. Ma questo cosa c’entra con la religione? Come se per organizzare le vacanze in gruppo non si decidesse se mare, città o montagna, ma il gusto del gelato che deve mangiare. Premesso che preferisco i gelati alla frutta e le città, non ne faccio una dottrina. Così un piccolo prete si ritrova schiacciato da un’immagine e un pregiudizio che riguarda un cardinale perverso e intrallazzato, si vendono santini e viaggi miracolosi, perdendo tempo a cercare di essere felici immaginando un amplesso col carrello del centro commerciale. Da qui diventa facile semplificare tutto come se i mussulmani fossero tutti farsi esplodere, i buddisti prendessero fuoco spontaneamente o i testimoni di Geova molestassero con gusto i citofoni. Mi ricordo che da piccolo a catechismo quando spiegavano che Dio mandò suo figlio per portare ordine nel casino che c’era la cosa mi sembrava molto logica, meno logica mi sembrò allora e oggi ancora peggio, che il casino due mila anni fa fosse peggio di questo. Cosa c’era di più o di meno? Le guerre ci sono, lo sfruttamento c’è, l’ingiustizia c’è, la miseria c’è, l’odio c’è e in più abbiamo il capitalismo e distruggiamo anche il pianeta. Forse l’unica grande opera è ricostruire la Torre di Babele, così si incazza di nuovo ma almeno di fa sentire.

Foto: Nun (?), presidio anticlericale Milano, 2 giugno 2012

lunedì 28 maggio 2012

Non si può imprigionare un arcobaleno


Non si può imprigionare un arcobaleno, al massimo si può fissarne l’immagine in una fotografia, ma non è la stessa cosa. L’arcobaleno è una cosa grande, alta come cielo e lunga come l’orizzonte, ogni contenitore esistente è comunque troppo piccolo. Non si può nemmeno conservarne un pezzo, perché esiste solo nella sua interezza e nel punto stesso in cui compare. Eppure insisto nel provarci. Ogni volte mi brucia la voglia di mettermi in macchina e inseguirlo fin dove tocca il suolo, non tanto per trovare la pentola d’oro degli elfi, ma per guardarlo appoggiarsi sulla terra, come i fiocchi di neve invece che come le gocce di pioggia nelle pozzanghere. Ma come le aurore, i tramonti, anche gli arcobaleni esistono solo in lontananza, come fantasmi e riflessi, come esibizioni di molecole vanitose che non si lasceranno avvicinare. Però si possono condividere, scoprire all’improvviso e indicare con stupore a chi ci è vicino, condividerli senza possederli, coglierli senza consumarli, lasciarsi incantare senza un risveglio dopo.


Foto: arcobaleno, 24 maggio 2012

domenica 20 maggio 2012

La mano invisibile


Sembra che esista, e che molti ne abbiano provata l’esistenza, una presenza che agisce in maniera invisibile nella nostra vita. Come una radice che compare all’improvviso nel bel mezzo del marciapiede per farci inciampare e subito scompare. Come un ladro veloce che vi nasconde un oggetto quando serve per restituirvelo quando diventa inutile. La stessa entità che vi sposta i cartelli stradali, gli abiti negli armadi, che vi trattiene o vi spinge ostacolando i vostri movimenti, apparentemente per mettervi in imbarazzo. Però è la stessa mano che picchia sulla vostra spalla per farvi voltare quando qualcuno vi sta fissando. E’ quell’alito che soffia all’orecchio scatenando brividi quando sentite che un momento speciale sta per incominciare. A volte è una guancia che si appoggia alla vostra quando la tristezza è esondata e sembra che ci sarà solo buio. Qualunque cosa sia, indipendentemente da dove venga, di che materia sia fatta, che sia reale o no, purtroppo sembra che non ascolti le nostre richieste, che non accetti ordini o desideri. In effetti l’udito è inutile alla sua esistenza, perché osserva solo noi, estrae i nostri pensieri e ci gioca: del resto del mondo non se ne cura. Se non riesco a concludere con chiarezza questo pensiero, o se ci sono errori in questo testo, è sicuramente colpa sua.

Foto: il suicidio dell’ombra, 2012

giovedì 3 maggio 2012

Papaveri rosso sangue






Mi metterò un appunto sul frigo del tipo “quando non hai voglia di partire, ricordati che è il momento giusto”. Sono bastati pochi chilometri per sentirsi abbandonare da una presa soffocante. E’ bastata una vacanza breve per prendere appunti su di me, tramite sogni agitati, del mio limite. La discesa nel pozzo di San Patrizio è stata una passeggiata: come camminare in una metafora del mio umore. Per fortuna che T. entusiasta delle strade antiche si è sobbarcata la guida di un migliaio di chilometri, lasciandomi perdere tra i faggi verdissimi dell’Amiata, le morbide colline che annunciano il mare, punteggiate di papaveri rosso sangue, che ora so non essere l’esagerazione dei poeti. Grazie anche al suo fidanzato che conosce fucine di pasta fresca che sono vere oasi di perdizione. Peccato la pioggia e le gocce che cadono sull’obiettivo della macchina fotografica, che fanno tuonare la mia rabbia placata sono dalla gioia di vedere gli amici estasiati tra le meraviglie di Niki de Saint Phalle. O perdersi nelle meraviglie di Spoerri, il cui incanto non è nella bellezza del singolo pezzo, ma dal volerti trattenere per sempre, per trasformarti (si spera) in un pezzo tra di loro. E c’era una piccola bambina che non voleva entrare nell’orco del parco di Bomarzo per paura che questo faccione di pietra la chiudesse nelle fauci. Cogliere la banalità di sentirsi dire che viviamo in un paese incredibile, dove ogni angolo nasconde un tesoro, dove ogni valle culla un miracolo. Non è necessario scovare un borgo aggrappato all’esistenza di un cocuzzolo di tufo, basta un capanno su una spiaggia, o un vicolo. Oppure i gradini di un antico convento trasformato in moderno albergo, consumati dai milioni di passi che li hanno accarezzati, come il vento con le rocce d tufo. Dovrei segnarmi i verbi all’infinito di questa piccola vacanza: andare, cercare, passeggiare, gustare, respirare, guardare, guardare, guardare.

foto: Viterbo, guardata con sospetto

venerdì 27 aprile 2012

Memorie dal sottogranchio



La sensazione è quella di una mano che ti afferri la faccia, come un granchio invisibile aggrappato ai lati del volto. Nessun dolore, solo un fastidio come un peso. In quelle mattine in cui mi alzo con questa sensazione già so che andrà tutto storto e non c’è nulla che possa smentire questa previsione. Il primo effetto è il non voler affrontare il giorno, sapendo che il minimo pensiero potrà turbarmi. Il secondo è un’ipersensibilità all’umanità generica, ovvero un’assoluta intolleranza a tutto. Tutti gli altri sono effetti conseguenti: quindi ogni borsa sarà inadatta alla macchina fotografica, ogni valigia sarà o troppo grande o troppo piccola, le cose da portare in viaggio sono troppe e, allo stesso tempo, troppo poche. L’esperienza è contagiosa: oggi in due servizi consecutivi ad un telegiornale hanno esaltato il week-end di sole che invita al mare e hanno conseguentemente descritto il Sole come il più velenoso degli elementi naturali. Per non parlare di una sterile polemica sul fatto che al concorso Miss Costarica non possano partecipare le donne sposare ma lo possano i transessuali, e quindi in cavillosa e moralistica definizione di “signorina”. Per fortuna nel tardo pomeriggio mi è venuto un semplice mal di testa, così alla domanda “che cos’hai oggi?” posso rispondere senza dover srotolare un post da anziano lamentoso sui mezzi pubblici.

foto: "100 sogni morti sul lavoro" Installazione di Gianfranco Angelico Benvenuto, Piazza Duomo, Milano

sabato 21 aprile 2012

20 Aprile 2012

Alla fine tutto si è svolto come in un racconto complicato, dove la trama lascia spazio affinché l’imprevisto vi ci si infili senza farlo mai. Alla fine del giorno quando tornavo in auto e il sole ad ovest calava visibilmente, sui cantieri abbandonati dal lavoro, ne avevo la consapevolezza. La preparazione impeccabile, la presenza di tutta la  famiglia, le settimane di tensione ormai dissolta ne sono stati i protagonisti. E così, con un sorriso raggiante, senza tentennamenti, con una serenità fatale, mia sorella si è sposata. E si è sposata veramente. Ed eravamo tutti li con il libretto azzurro in mano come se fosse un gioco, una recita organizzata, invece di cogliere che da quel giorno sarebbe cambiato tutto. Anche il cielo che ha deciso di rovinare la Primavera ieri si è messo dalla parte dei simboli e ha aspettato il “sì” per cambiare colore. I sorrisi degli invitati si sono sciolti nel vino, non quelli di cera dei camerieri, che alla fine del giorno avranno doloranti i piedi e la faccia. Io che sono sempre in ritardo, non sui tempi, ma sulla sceneggiatura, mi sono accorto che non ero più teso solo verso sera quando ho incominciato a cercare i confetti nelle tasche stracolme degli invitati. Quando mio cognato (perché adesso ne ho uno anche io) mi ha detto: ma noi non abbiamo ancora brindato. Abbiamo fatto una curva ed è cambiato il paesaggio, ma è lo stesso viaggio.

foto: 20 Aprile 2012

domenica 8 aprile 2012

Fragile castello di ghiaccio


Stuzzico sadicamente il pensiero che ha fatto crollare tutto. Un’idiozia rimasta nascosta tra l’irregolarità del flusso dei ricordi, uno sciocco dolore tamponato dalla logica. Così come un creditore senza rimorsi si è ripresentato, nel nuovo scenario, chiedendomi di considerarlo alla luce dei nuovi fatti. Come dire “raggiunto in carcere da un nuovo avviso di custodia”, come se non bastasse l’ergastolo. Non si è sentito il boato? Il castello crollare? Certo che sapevamo che una costruzione di materiali deperibili sarebbe crollata, ma i nuovo lavori alle contrafforti avrebbero dovuto sostenerli. Eppure avevo gli occhi pieni di serenità gratuita dopo aver visto la mia famiglia muoversi come un solo organo sano e coordinato, quando poi anche gli altri parenti si sono uniti come fibre di uno stesso muscolo, e  mi sono rallegrato della mia fortuna. Ma ciò non centra, è successo oggi e pensavo che sarebbe stato il centro della mia giornata, non immaginavo cosa sarei riuscito a produrre. Un niente, è bastato un niente, perché questo grande tesoro si svalutasse come la Lira nei materassi nascosti nelle campagne. Un tarlo armato di martello pneumatico ha deciso di farmi compagnia nella mia solitudine e ha iniziato un concerto di pensieri che sembrano vicoli di Marrakech, che non portano in nessun luogo, ma tutti conducono a muri lisci in angoli ombrosi. Così mi rifugio nell’urlo, che tanto odio, nell’inutile sceneggiatura del già detto da migliaia di anni. Sicuramente in qualche Shakespeare c’è una più degna rappresentazione e migliaia di attori nella storia l’avranno rappresentata con gusto, sforzandosi di renderla chiara al pubblico, magari privi dell’adeguata esperienza personale. Non chiedete a me: io non so raccontare, posso solo abbindolarvi con metafore che vi ci portino vicino, ognuno per la propria immaginazione, ma sempre lontano da qui, dove quando il giaccio che si scioglie lascia un’acqua inutile che si può solo buttare nel lavandino.

foto:  fragile castello di ghiaccio

giovedì 5 aprile 2012

Se fosse solo acqua


Arriva la pioggia di primavera e ritornano anche quelle sensazioni, come le rondini e il vestiti leggeri. La debolezza che Aprile mi porta mi spinge rifugiarmi nei sogni per non vedere il limite che abbatterebbe ogni slancio. Oggi appena il cielo si è presentato perfettamente grigio fuori dalla metropolitana, l’aria umida e fresca, ho pensato che fosse uno di quei giorni in cui bisognerebbe rinchiudersi in un bar, con la vetrina che da sulla strada a leggere quotidiani. Si potrebbe guardare le gente che passa per strada, scovare bellezze incantevoli nei visi distratti delle ragazze, svelare dinamiche inimmaginabili nei lavori più banali. I giornali servirebbero come alibi per abbassare gli occhi, magari sperando che tra tante parole  inutili, si sia infilato un articolo ispiratore, una foto che ti tolga il fiato, non con la cruda banalità del male, ma con una folgorante originalità. Oppure potremmo passeggiare in silenzio, chiaccherando e ridendo, telepaticamente.

foto: it doesn't fit. 5 aprile 2012

martedì 3 aprile 2012

Cooking with myself


Tornato dall’ufficio ho fatto la spesa. E’ difficile da spiegare ma è bellissimo scegliere gli ingredienti per cucinare, non fare acquisti, non fare shopping, ma comprare le cose con cui cucinerai. Non mi vergogno a dire che passo davanti ai sughi già pronti sbirciandoli, non per desiderio, ma per trarne ispirazione. Ovviamente la sosta più lunga è davanti ai vini e al mio desiderio di riuscire a ricordare i nomi o le etichette dopo che ho svuotato le bottiglie. L’invito ad un’amica come conforto psicologico a questa cena e come stimolo per il mio impegno è andato a vuoto: è destino e  cucinerò solo per me. Così ho fatto e l’ho fatto giocando, perché io che non gioco mai con i giochi poi gioco con le cose serie. Gioco con il cibo, gioco con le parole, gioco con i sensi, gioco con me (però in quel caso si finisce sempre le litigare). Così mentre  i vicini urlano per una partita la mia pentola fa urlare il soffritto e il forno non fischia il rigore ma richiama la mia attenzione con la campanella. Ricetta della serata: tortino di bresaola ripiena di frittatina alle verdure e riso al (troppo) curry con nasello, il vino lo segno qui così me lo ricordo ed era una Chardonay LaVis del 2010. E riletto fa molto cool, se mi fregasse qualche cosa lo ripeterei ad un aperitivo alla milanese. Invece le tortine replicheranno sabato per la mia famiglia e per la prima volta che cucinerò per loro nel mia casa. Inizia a sembrare vero.

foto: mai sottovalutare le fotografie di Cucina Italiana, mai.

giovedì 29 marzo 2012

In un istante l'istinto






Eppure pensavo, anzi ero convinto, di aver imparato la lezione, di essermi deciso a credere  che posso più fidarmi del mio istinto che delle parole che sentono le mie orecchie. Eppure esso urla come un cane che abbaia alla minaccia che sente vicina, sussulta come di una cosa importante ricordata all’improvviso, mi tira come un bambino che vuole svelarvi qualche cosa di nuovo del mondo. Ma io lo schiaccio, lo ignoro, lo declasso a “inutile sensazione” o “eccesso d’ansia”. Eppure l’ansia l’ascolto, pure troppo, ma l’istinto no. Ho sbagliato anche questa volta che ero all’incrocio, ho chiesto informazioni a tutti, tranne a me stesso. Anzi, peggio ancora, non mi sono fidato. 

foto: a ghost behind the door.

mercoledì 15 febbraio 2012

Ingranaggi





Sarebbe bello poter leggere il mondo come si legge l’ingranaggio di una macchina: ogni dente nel suo solco, ogni giro con il suo tempo. Oggi con il digitale sarebbe anche più facile,  basterebbe un po’ di codice per aggiustare le persone, i momenti e le grandi situazione. E’ forse il sogno dei dittatori pensare che ogni persona sia un ingranaggio e non un organismo autonomo e pensante. Purtroppo nemmeno gli osservatori di formiche sono riusciti a trovare un modello per la realtà. Forse perché un modello non c’è, un po’ come per il traffico nelle ore di punta: basta una piccola variazione e tutto cambia, così una città di solito satura appare per pochi secondi deserta. Basta sporgersi un istante nell’idea che tutto sia macchina, meccanica, di sola materia per sentirsi come sul bordo dell’abisso, con il panico che sale come una corrente d’aria gelida. Io ero, e credo di esserlo ancora, di quei bambini che non potevano fare a meno di aprire i propri giocattoli, tanto più questi erano amati. Era una forma di godimento personale, di possesso assoluto, di fusione con l’oggetto stesso. Poi si cresce e i meccanismi si complicano perché entrano in gioco le persone, i gruppi, le società, la Storia, però rimane qual profondo desiderio di capire la macchina, di strappare la carrozzeria con tutte le luci, per vedere cosa genera l’illusione. Hugo Cabret cercava di capire i meccanismi per riparare al passato, di solito lo si fa per capire il futuro, ma la tenacia, di chi si lega alla propria razionalità per superare l’orizzonte del presente, è la stessa. La sua “legge della natura” era la meccanica, oggi sarebbe la fisica quantistica, prima ancora era la filosofia. Ma la cosa che gli invidio era di vivere dentro ad un orologio, di essere circondato dal suo modello di perfezione. La cosa che spero è, che  indipendentemente da un eventuale premio Oscar, Dante Ferretti entri nella testa della gente come il costruttore di vero mondo immaginario e non dimenticato come tanti scopiazzatori di questa realtà imperfetta.


Foto: Missing gears, 15 febbraio 2012

domenica 5 febbraio 2012

La prima pietra


Fa un po’ strano vederlo solo nella casa vuota, come un invitato ad una festa arrivato troppo presto. Però mi piace che in questi giorni l’attenzione si sia rivolta su di lui, sul suo colore intenso, che tutte le carezze siano state per la sua pelle. Se fosse arrivato un po’ più tardi magari sarebbe passato in secondo piano, al peggio liquidato come una scelta eccentrica. Per me è una promessa di abbracci, di fredde serate chiuse tra lui e un libro, di sogni confusi nel sonno pomeridiano. Solo ora che l’ho davanti mi rendo conto che sto realizzando il mio progetto, che ciò che fino a poche settimane fa era un’annebbiato divenire, oggi si sta concretizzando pezzo per pezzo. E forse non è un caso che il primo pezzo sia questo divano che ho tanto desiderato, che ho immaginato e descritto, non l’ho scelto in una vetrina o su un catalogo. Come un pioniere in una prateria ho tracciato un segno e dal quel segno è nata una casa, il mio segno è questo pezzo di arredamento, intorno ad esso crescerà una casa, nella speranza che chi la veda pensi: è proprio la tua casa.





foto: divano, 4 febbraio 2012

sabato 14 gennaio 2012

Ecco la nebbia che illumina







Vorrei raccontarti la nebbia che oggi mi ha avvolto e chiamato come non faceva da tempo. Per un misterioso fenomeno questo pericoloso agente atmosferico non mi fa paura, e mi chiama a se, come fanno le pozzanghere con i bambini. Del resto basta attraversarla piedi e si capisce che non c’è nulla da temere. Lo sguardo perde subito la dominazione sugli altri sensi se non può andare oltre pochi metri. L’aria lattiginosa nell’avvolgerti ti sfiora il viso come un fantasma dalle mani fredde. Anche le luci ripiegano su se stesse i raggi trasformandosi in infiammati palloncini. Le finestre delle case le rendono più calde e accoglienti, se riesci a sbirciarci attraverso. Anche le baracche del circo sembrano nidi occupati, perdendo quel senso di precarietà che le sostiene come delle palafitte. Ci sono momenti in cui sei completamente solo, momenti in cui potresti essere ovunque, momenti lunghi che durano fino alla rottura del silenzio da parte di un’auto che avanza cauta, con i guidatore che si sporge sopra il volante aggrappato con gli occhi alla linea di mezzeria. Incontri solo fanatici della corsa che ti guardano di sottecchi come se il tuo hobby di fare foto alla nebbia fosse più anomalo del loro. Ma forse c’è anche un complicità nascosta tra chi, con tutta questa nebbia, è uscito per prendersene un pochetto.

foto: nella nebbia, 14 ottobre 2012