venerdì 1 agosto 2014

Non m'è dolce naufragar benché questo mar…


Se dovessi abbandonare la mia città per un’altra scegliendola liberamente, forse andrei a Venezia. Il perché è difficile, ma per lo più è una questione di pelle, di spazi, di pieni e di vuoti. Forse anche di infinita precarietà. Un po’ perché non ci sono auto e le città pedonali sono attraenti. Trieste è una di queste: abbastanza pedonale, senza parcheggi e quindi respingente per le auto, con il mare. Il mare è tutto un altro capitolo: per me è come il fuoco, lo guaderei con timore per ore. Così come non mi addormenterei vicino ad un fuoco, credo, che non potrei nemmeno addormentarmi vicino al mare. Lo sento vivo, come un unico corpo immenso e  animalesco. Non posso fare a meno di fissarlo. Se abiti in una città con il mare e non hai nulla da fare puoi sempre andare a guardarlo, sarà uno spettacolo sempre nuovo, immenso e un po’ interiore, meglio di ogni televisore. Io non ho né televisore né caminetto, sento il desiderio di un mare da guardare. Si dice che i marinai non sappiano nuotare e potrebbe essere una romantica soddisfazione. Oggi ho comprato un libro sul Mediterraneo, un bel abbinamento tra il mare e una vecchia edizione che raccoglie articoli di un secolo fa. E un libro su Lisbona, anch'essa piccola e fragile, sul mare. E la guida per il Messico. In fondo il fuoco e il mare hanno in comune il continuo rimestare della loro materia; anche quando sembrano immobili, si muovono continuamente, come se fossero sempre insoddisfatti o in cerca di qualche cosa. Ora che ho svuotato la valigia guardo il contenuto sparso, come fosse una radiografia, chissà che non riesca a capirmi.


Foto: dettaglio dal Molo Audace, Trieste, Luglio 2014

martedì 3 giugno 2014

Invertigine


Guardare dal basso verso l’alto un monte immenso, un albero maestoso, un imponente edificio, ed immaginare di salirci. Immaginare, senza provarci, di sentire lo sforzo dei muscoli che ti tirano su metro dopo metro. Immaginare la temperatura dell’aria e la forza del vento cambiare, sentire il sole farsi più caldo perché vicino. Immaginare la gravità che si fa prima opprimente e poi lieve come un amano che vorrebbe trattenerti al suolo ma poi ti lascia andare ritirandosi. Immaginare il dolore dei polpastrelli uncinatii alla materia, la pelle graffiata, e goderne. La fatica viene sempre ristorata dalla visuale conquistata, dall’orizzonte nuovo, dal diverso punto di vista. Pensi che ne è valsa pena arrivare sudati così in alto? Si poteva rimanere a terra ma si avrebbe ignorato tuto questo, non avremmo visto quello che stiamo vedendo e vorresti urlarlo a tutti “salite pazzi! salite! non aspettate...”. Il cuore dopo un po’ si calma, il sudore si asciuga e inizia a fare freddo; quello che era un punto di vista nuovo diventa familiare, diventa un punto di vista tra i tanti. E’ ora di scendere. Ma perché rischiare? Magari cadere e sfracellarsi al suolo? Potremmo restare qui ancora un poco. Guardare dal basso verso l’alto e immaginare, non fare un solo passo, ma immaginare tutto e non muoversi. “Tra il primo pensiero d’una impresa terribile, e l’esecuzione di essa, (ha detto un barbaro che non era privo di ingegno) l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure.” Ha detto un Alessandro Manzoni citando il Giulio Cesare di William Shakespeare.


foto: Trapped, giugno 2012

sabato 31 maggio 2014

Intimità


Lo spazio ristretto, isolato e protetto dell’abitacolo di un’automobile è una perfetta rappresentazione del spazio intimo del suo guidatore. Non per nulla le personalità emergono, come radiografate, osservando alcuni guidatori soli nella propria auto. Oltre a canzoni urlate ed rino-esplorazioni, l’automobile estende e mette su gomma alcuni aspetti della personalità. Io in auto parlo ad alta voce da solo, ovviamente se sono da solo. In questo periodo che ho alternato con frequenze incredibili giorni in cui ero completamente solo a giorni in cui ero immerso in dinamici gruppi di persone, più o meno conosciute, più o meno amiche, ma tutte vicine, ho pensato spesso al mio concetto di intimità.
Nella mia famiglia non ci si abbraccia o ci si bacia, praticamente non succede mai e credo non sia successo mai. Forse alcune volte talmente rare ed imbarazzate che si è dimenticato. Eppure è una famiglia molto unita e “affettuosa”, in altri modi. Io sono portato ad esprimere anche fisicamente il mio affetto e la mia vicinanza, quindi vivo un continuo conflitto nel mio comportamento. Se incontro un amico tendo la mano anche se vorrei abbracciarlo, raramente con una amica mi sporgo per sfiorarle la guancia, di solito aspetto di coglierne l’attesa. Questo è l’altro aspetto molesto: questo timore di sembrare invadente, di andare oltre il consentito, o forse peggio, ottenere un rifiuto. Il rifiuto mi è insopportabile, centra il nucleo più sensibile del mio orgoglio. Quindi il gesto affettuoso che è un ponte tra due intimità, per chi non ha meccanizzato e banalizzato certe esternazioni, diventa un tentennamento che aumenta il distacco. Adesso scendo dall’auto, abbraccio il tizio dell’autolavaggio e gli dico “bel lavoro!”... ma no, forse è meglio di no.




Foto: nell'autolavaggio, 27 Maggio 2015

sabato 8 marzo 2014

Aggettivo indescrittivo


Non è possibile trovare un unico aggettivo che descriva una personalità, anche il più apparentemente mediocre, è un caleidoscopio di caratteristiche quasi infinite. Certamente scegliendo con attenzione alcuni aggettivi potremmo riconoscere delle persone all’interno di un dialogo, ma sarà sempre un’ingiusta e superficiale approssimazione. Il singolo aggettivo può andare  bene per i personaggi della fantasia, per i miti, come il saggio Tiresia , il divino Giove, la bella Venere e il vagabondo Ulisse, ma non per la gente reale. In essi il singolo aggettivo racchiude la storia, è come la carta dei personaggi in certi giochi di ruolo, o la figurina del calciatore.  Ma la psicologia ha deciso che siamo più complessi, e ha spazzato via i personaggi bidimensionali, a favore di quelli iperdimensionali, alla Pirandello, per capirci. Ciò non ha nulla a che fare con l’unicità di ogni essere umano, ma solamente con la consapevolezza che l’aggettivo diventa etichetta, mutilando chi la riceve. Non c’è dubbio che spesso si  esponga  una maschera che invita a farsi classificare in un certo modo, che ci propone come un prodotto da scaffale, come un genere musicale. Siamo noi a farlo, spesso parlando di noi, vestendoci, raccontando le nostre scelte. E’ attraverso un aggettivo che si separano gli amici dai nemici e quando diventa il  passaggio da umano a disumano, è l’aggettivo ad aprire la strada per la violenza.  A volte poi gli altri insistono per raccontarci quale aggettivo hanno scelto per noi, e non è mai il semplice innocuo-pericoloso, come l’istinto vorrebbe, oppure il amico-nemico, l’infantile bello/buono-brutto/cattivo; spesso vanno a cercare la cosa più ambigua, sfumata, indefinita, ma che ha un preciso sapore immediato, generalmente amaro. Sì, lo so, sono cervellotico.



Foto: Maschera dell'Associazione Culturale Boes e Merdules, Ottana (Nu)

sabato 8 febbraio 2014

Il Vuoto



Secondo il Dao, ma anche secondo il buon senso, tutto nasce dal vuoto e il vuoto ha valore.
Un vaso lo si apprezza per la sua capacità, che è  il suo vuoto. Così una porta la si utilizza per la sua parte vuota in cui si può passare. Il vuoto contiene, accoglie, consente l’esistenza. Tutto ciò è un vuoto di prospettiva, ovvero che in futuro potrebbe essere occupato. Più difficile è cogliere l’utilità del vuoto per mancanza o per sottrazione. Se guardo un portafoglio vuoto non immagino il futuro guadagno, ma l’immediata spesa. Così una pancia vuota e affamata, un letto mezzo vuoto, una cornice vuota. Eppure il vuoto è sempre lo stesso, ma noi lo cogliamo differente. Da un lato una potenzialità, dall’altro un dolore. Allora chiudo l’attenzione su me stesso e faccio vuoto tra i pensieri, se ci riesco, i due sapori del vuoto iniziano a somigliarsi, poiché sono proprio i pensieri che spengo a renderli diversi.
In un teatro vuoto gioco con la mia voce e la scopro per la prima volta. Devo usarla per riempirlo, per esplorarlo come un pipistrello. I verbi del vuoto, vibrare, risuonare, iniziano ad appartenermi. Nelle cavità del mio corpo la voce impara a vestirsi, a trasformarsi, da istinto naturale a manifestazione della volontà. Nell’utero materno, il vuoto-pieno per eccellenza, il mondo esterno ci raggiunge solo con i suoni, ora provo io a raggiungerlo. Non posso sapere se questo è un percorso o una sosta, per ora è un possibilità nuova che occupa lo spazio.
Il vuoto ci protegge dal turbino dei pensieri che fanno di una mente occlusa un peso inutile, peggio di una mente vuota.

Foto: Teatro Oscar Pacta - 2 Febbraio 2014

domenica 12 gennaio 2014

L'idea (piccola) di Libertà


Pasticciare avanzi di una festa per tutto un pomeriggio, senza aspettare una vera è propria cena: questa è libertà. 
Vagare di notte, nella strada, nella rete e nei libri, per poi dormire di giorno: questa è libertà.
Mischiare gli ingredienti seguendo solo l'immaginazione di cosa diverrà: questa è libertà.
Sospendere, anche per poco, abitudini, abbigliamenti, orari, sequenze: questa è una (piccola) libertà.
Non conoscendo la Libertà, intendo nel senso più alto possibile, provo a cercarla nel piccolo, sperando che ogni episodio sia la tessera di un mosaico definitivo, e che si possa riconoscerla anche disponendo di pochi pezzi.
Domani torno al lavoro, riuscirò a farlo diventare un pezzo della mia libertà?



foto: L'idea di sedia, gennaio 2013

domenica 8 dicembre 2013

Affinità elettive


L’osservazione distratta spesso coglie, così come perde, strani dettagli. Dico dettagli perché se chiedete ad altri un parere su questi argomenti vi tratteranno come uno stralunato, o comunque uno che ha del tempo da perdere. Notavo il piacevole accostamento visivo che danno i libri e le bottiglie di vino, quello rosso in particolare. Stanno bene vicini, gli uni appoggiati agli altri, anche mischiati. Benché come forma siano differenti, ma anche come contenuto, questi non hanno tratti in comune se non le poche parole scritte sulle etichette. Che nel vino ci siano, o nascano storie, è una bella speculazione ma non vale come spiegazione. Colgo un'immagine di un orizzonte romano fatto da palazzi stretti e alti, intervallati da da maestose cupole. La sensazione che ricevo è quella di calore, di intimità, di un momento di condivisione. Però si legge un libro da soli ma non si beve, quasi mai, del vino in solitudine. Nel dubbio l’ho chiesto ad un’amica che fa sempre del buon viso alle mie strambe uscite e ha risposto una cosa del tipo: è vero, ma è così. Ho cercato di chiederlo ad uno stralunato vero incontrato in un'osteria, sperando che il suo slegarsi dal consueto mi aiutasse, ma ha cambiato bruscamente discorso ignorando la mia domanda. Ora dovrei chiederlo ad un poeta, o una poetessa, forse ad un bambino o una bambina, ad un teologo o una teologa… in pratica a chi guardando la vita da un punto di osservazione differente può cogliere cose che io non posso vedere da qui. Ma chiunque sia, che voglia provare a rispondere, l’unica risposta che non accetto è che questa cosa non sia importante.



Foto: affinità elettive, 8 dicembre 2013