sabato 4 luglio 2015

Intra moenia


Era il suo primo pensiero del mattino e, spesso, l’ultimo della sera. Fissava l’alta e spelacchiata siepe che lo separava la piccolo giardino del vicino e pensava che un muro sarebbe stato meglio.
Un muro non molto alto, un paio di metri, di mattoni rossi come la casa con un elegante bordo di granito in cima. Sarebbe stato più riservato, più intimo, più separato dal quella chiassosa famiglia con quel bambino urlante e quella griglia puzzolente sempre in funzione. Non avrebbe più visto il disordine di quel giardino a dir poco abbandonato, quel muso di topo del loro cane infilarsi nella siepe per minacciare la sua proprietà. Ma se quel muro l’ossessionava, l’altro lo faceva impazzire. Era la parete che separava il suo ripostiglio dalla camera da letto dell’altra famiglia di vicini, una coppia con due bambini e un simpatico cagnone. Non lo avrebbe mai confessato, nemmeno sotto tortura, ma aveva passato delle ore appoggiato a quella parete ascoltando la loro vita. Si metteva quasi seduto, appoggiando il sedere sullo scaffale nel poco spazio libero, le mani contro la porta e l’orecchio al muro. Poteva sentire le loro discussioni, i capricci dei bambini, l’abbaiare festoso di Koki. Assorbiva tutto, immaginava tutto e avrebbe voluto urlare la sua opinione di osservatore imparziale e indubbiamente saggio. Incontrando l’uomo della coppia per strada a volte avrebbe voluto fermarlo durante il saluto, buttare la qualche frase e parlando d’altro dargli la propria opinione, così per fargli capire che su di lui poteva contare. Qualche volta, di giorno o di notte, li aveva anche senti far l’amore e un orgasmo mentale aveva travolto anche lui nell’apice della partecipazione più intima. Più volte aveva cercato di architettare un modo per assottigliare quella parete, ad esempio grattandone via un po’ per volta il cemento, ma non ne aveva avuto il coraggio. Stava pensando di approfittare della loro partenza per le vacanze estive (quanto gli sarebbero mancati!) per forare in modo millimetrico il muro, non per spiarli, non sia mai, ma per respirare un po’ della loro aria. Come quel profumo intenso di carne alla brace, vigoroso e famigliare, ma no, forse no, quell’odoraccio arrivava dagli altri vicini.

Foto: Berlino, memoriale dell'Olocausto, 2007

martedì 23 giugno 2015

Goodbye Gotham


Non potevo non tornarci dopo quella fugace visita di poche ore e ci sono tornato per otto intensi giorni. E’ la città che tutti conosciamo, l’abbiamo vista in tutti i film e su tutti i vestiti. Se fosse una donna ne avremmo un’idea un po’ pornografica, come conoscerla in ogni sua intimità senza averla mai incontrata. Ma non è così, esattamente come se fosse una donna, non sarebbe mai quella che viene rappresentata. Se metto in ordine le sensazioni parto dall’olfatto, dall’odore di pattume lasciato sotto il sole fino a metà mattina invece dell’odore di smog che mi aspettavo. Per ultimo lascio il gusto, in un paese che non ha cultura culinaria e non la vuole, vorrebbe avere a propria disposizione quella di tutti i paesi ma poi li relega in ristoranti oscuri o in catene di fastfood dal sapore di ciclo fordista.
Il tatto non esiste, non ci si sfiora, nemmeno per passare la carta di credito al commesso. Non si toccano i passamano o i pali della metropolitana, ci si intimorisce nel pensare a quante mani li abbiano già toccati. La vista si confonde, dopo pochi minuti gli alti palazzi senza altri riferimenti sembrano tutti bassi uguali, casermoni di cemento e mattoni o di vetro e alluminio. Anche dall’alto, o dal fiume, resta uguale. Un mazzo di grattacieli che cercano il cielo per respirare e per mettersi in mostra, singole piume di una grande coda di pavone. Ma è il sesto senso che vibra senza posa, quella sensazione che dice che è esattamente quello che ti aspettavi: non una città ma la rappresentazione spettacolare di una città. Tutto, il dolore, la gioia, il sesso, la rabbia, l’individualità, la socialità sono rappresentate e portate a livello di spettacolo. Il memoriale dell’11 Settembre è l’icona di una incapacità di considerare le cose in un contesto, ma da isolare in bacheche, estremizzarle per renderle colossali, da ammirare e quindi distaccarle dal quotidiano. La gente, bambini compresi, si tatua il corpo perché scritte sulle magliette, ma nemmeno le mode, riescono più a raccontare queste milioni di vite e le loro singolarità. Il bombardamento di stimoli, che non la farebbe dormire mai, è in realtà un matra ripetuto con poche note variazioni. Il fermento vero, quello dell’anima, se c’è non si percepisce da turista. Forse è sotto i marciapiedi e si sfoga all’esterno con una costante nebbiolina calda. Forse è nelle strade più lontane dal fiume, a nord, dove le metropolitane si diradano e le vie si chiamano con numeri a tre cifre. Forse è nelle case minuscole, che si riempiono subito di cose, di ricordi ed emozioni, tanto che la gente deve mangiare fuori, nei parchi o sui gradini. Sono però sorridenti o recitano bonariamente lo sguardo da duri, gli immigrati ti raccontano che qui hanno avuto la loro possibilità. La chiamano “qui guadagno tanti soldi”, non ti dicono mai quanto, ma sono sempre tanti quanto bastano per dirsi rinnovati. Non è un buco che attrae per masticare, è una culla che vuole accogliere. In cambio chissà cosa pretende? Forse si accontenta che venga recitata la parte assegnata. New York non è un palco scenico, è uno scrittore che si nutre di persone per costruire il più grande diorama del pianeta.

Foto: NYC, Giugno 2015

sabato 28 marzo 2015

Io, adesso


Questo sono io adesso. Questo è quanto poco sia io adesso. Manca qualche dettaglio, manca il tutto quello che vorrei essere, ma questo sono io. C’è il mondo in cui vivo e non capisco, quello che cerco e quello che vorrei costruire.C’è tutta la teoria e la mancanza di pratica, il desiderio e il vuoto che lo realizza. Sembra pieno ma è solo confuso, come i continuo flusso di pensieri che si scontra nella mia testa come le nuvole di di un temporale. C’è anche, l’ho intravisto, il mio continuo conflitto con tutti e con tutto, sono un naufrago su un isola deserta che litiga con una noce di cocco. C’è il sole, ma dovrebbe esserci la sera; c’è il viaggio ma dovrebbe esserci la paura. Ho promesso si essere clemente con me stesso, almeno quanto lo sono con gli altri. Dovrei partire da qui per impormi a me stesso.


Foto: Io, adesso. 28 Marzo 2015

venerdì 16 gennaio 2015

Aggiornamento da lontano


Ciao, è da un po’ che non ci si sente. Come va? Non dirmi che non ci sono novità perché non può essere vero. Il mondo vive sempre le sue tragedie, alcune silenziose alcune molto rumorose. In fondo quelle che si sentono di più sono anche quelle che fanno sembrare la gente più umana, o semplicemente solidale. Se lo fosse per ogni tragedia le dimostrazioni di dolore e indignazione non finirebbero più. Ma le tragedie finirebbero? Sì anche tu hai partecipato, hai fatto bene. A volte è importante esserci per essere sicuri di… esserci. Il resto? Il solito spazio vuoto? Ah, no come lo chiami tu… il deserto di marmo? Su... passerà, tutto passa, o passa questo o possiamo noi. Ma sì, sono piccole delusioni, che offuscano i momenti di felicità. Dai facciamo qualche cosa, programmiamo qualche viaggio, andiamo a vedere qualcuno o qualcosa! Capisco, l’agenda è già piena… sarà per un’altra volta, magari quando vuoto e pieno non coincideranno.



Foto: Mandala - Pantigliate (Mi)

sabato 22 novembre 2014

Questo sabato


A volte capitano questi sabato mattina quasi perfetti. Una notte segnata da strani sogni e un risveglio lento, ma senza colpe. La colazione lenta e il proposito di uscire che non si dissolve in immaginari ostacoli. Il freddo leggero, il sole, la poca gente sulle strade. Un venditore di Terre di Mezzo ti sfodera un mazzo di testi tra i quali spunta proprio quello che forse cercavi, di cui avevi sentito e che forse volevi. Via Tadino e dintorni colorano di domestica tranquillità una città globalizzata. Un gentile addetto della Provincia ti appare orgoglioso del suo lavoro. Giacometti ti circonda di gambe lunghe e ti parla di esistenze, di imperfezioni della realtà rispetto al desiderio. Non sono le stesse gambe lunghe che ti precedono sui marciapiedi di Corso Venezia. Sei felice di esserti portato la macchina fotografica e non la lasci sonnecchiare. Nulla ti spinge, nulla ti trattiene. Una quasi perfetta mattina di sabato. Quel quasi che resta nei sogni che hanno segnato la notte.



Foto: This is an apple. 22 Novembre

mercoledì 19 novembre 2014

La goccia sulla bottiglia


La goccia aggrappata al bordo della bottiglia trattiene il fiato ascoltando il tutto. Ascolta i rumori nella gente del ristorante, sente il freddo del vetro, sente il liscio del bordo a cui si aggrappa. Non sa come sia finita in quel posto né da dove venga. Potrebbe essere un goccia  sfuggita nel versare il liquido nel bicchiere, potrebbe essere condensa dell'aria aggregata in un punto, ma potrebbe anche essere lo sputo di un cameriere. Non importa, ciò che importa è che essa è. E' li ed è lei, e sente, e resta sospesa per un tempo indefinito. I sensi funzionano e lei accoglie le sensazioni dentro di sé. Io ho un blocchetto di piccoli fogli carta che sono l'archivio storico del mio umore, delle mie ansie e serenità. Sono l'appunto delle mie proiezioni e del mio rintanarmi. Il blocchetto non ha parole e ma solo scarabocchi: linee curve e rette, punti, trattini, tutti di vari colori. Sono un codice che io so leggere, e forse anche gli altri se sapessero che quel libretto è qualche cosa che si può leggere. E' un linguaggio semplice eppure non percepibile, come la voce di una goccia sul bordo di una bottiglia. Ascoltiamo.


Foto: Lago di Verbania, ottobre 2014.

venerdì 26 settembre 2014

Ciao



Margherita fissava dalla finestra il postino varcare appena la soglia del cortile per depositare la posta. La pelle bianca in contrasto con il nero dell'uniforme risaltava sotto il sole di mezzogiorno benché mezzo viso fosse protetto dall'ombra del berretto, una mano in tasca e l'altra fugacemente fece passare una lettera di color verde tenue nella cassetta violentemente rossa delle lettere. Il colore della busta annunciava un invito a qualche rituale festa per i genitori, un richiamo alla leva degli adulti arruolati nell'esercito del corretto comportamento sociale. Non si mosse per andare a prenderla tanto non era per lei. Fino a qualche settimana prima si sarebbe buttata come una donna in fuga da un incendio, giù per le scale, diritta in salotto, lungo il vialetto per prenderla. Avrebbe strappato con i denti la busta e l'avrebbe letta d'un fiato mentre rientrava lentamente, un'altra volta l'avrebbe riletta sulle scale, un'altra volta al tavolino e decine di altre finché non le fosse venuta l'ispirazione per la risposta. Ma questo valeva solo per le lettere di Oliver. Da due anni era iniziato questo fitto scambio di lettere, quasi quotidiano, tanto che un possibile ritardo poteva mettere in allarme sia lei che il postino. Aveva iniziato lei rispondendo ad un suo annuncio sul giornale, l'aveva intrigata l'idea di dialogare, anzi chiacchierare, con uno sconosciuto lontano che mai avrebbe incontrato, per promessa fatta a sé stessa. Racconti, pettegolezzi, giochi di parole, commenti sulla cronaca, confidenze, di tutto si erano scritti, in un dialogo che sembrava inesauribile. Poi all'improvviso cadde il silenzio, dopo una lettera di lei, non più lunga o più breve, non più densa o leggera, delle altre. Ne scrisse un'altra, poi un'altra cambiando il colore della busta, ma non arrivò più nessuna risposta. Lui le aveva scritto in passato di un momento difficile, forse una malattia, ora un ombra si faceva largo dando corpo ad un presentimento, come un fumo nero che invade una stanza. Restava nelle ore libere in una specie di ozio, seduta al tavolino, con i fogli ben ordinati e la penna appena intinta nell'inchiostro. Il polso piegato leggermente lasciava cadere sul foglio qualche goccia azzurra, come se questa volesse sfuggire ed andare a svolgere il proprio compito autonomamente sulla carta. Lo sguardo puntava al cielo, ma non scriveva, pensava. Immaginava di raccontare ad Oliver i suoi pensieri, svolgendoli ordinatamente come se fossero scritti. "Ciao" iniziava e srotolava lettere lunghissime che non scriveva, ma che spediva col pensiero, verso quel mondo non fatto di materia, dove forse lui le poteva ancora leggere.

Foto: Papers, Settembre 2014  ( handwriting base image by aliexpress.com )